Sara Giudice | Ius Soli e lo stallo italiano: tra chi lo vuole.. ed i giovani che dall’Italia… se ne stanno andando

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La nomina di Cécile Kyenge, cittadinanza italo- congolose, ha riportato al centro dell’attenzione i temi dell’immigrazione e del diritto di cittadinanza e, come prevedibile sono emersi i frammenti rimasti di qualche vetusta ideologia che ancora serve a garantirsi, forse, qualche fetta di elettorato smarrito.

Da una parte la Lega e il PDL si sono lanciati in un attacco preventivo contro il nuovo ministro e le sue posizioni lassiste, dall’altro a sinistra si è subito movimentato il solito armamentario “antirazzista”. La sensazione è che tanto tra i primi quanto tra i secondi manchi una visione che sappia andare oltre gli slogan e soprattutto manchi la capacità di adattare il proprio ragionamento a realtà sociali, produttive ed economiche che cambiano in maniera rapida e spesso imprevedibile.

La crisi sicuramente ha indebolito l’illusione che la società italiana sia destinata di per sé ad un futuro di prosperità e di sicurezza e che quindi la priorità sia rappresentata dalla difesa del nostro “perimetro del benessere” contro intrusioni esogene.

Affermare che siano gli immigrati a mettere a rischio le prospettive di tenuta economica, sociale e culturale del nostro paese è intellettualmente più che disonesto.

Gli italiani infatti, sono ben capaci di rovinarsi con le proprie mani.

La riflessione inevitabilmente però si concentra anche sulle ricette giuste con cui affrontare le problematiche dell’immigrazione, che non possono essere quelle del multiculturalismo all’americana, del buonismo e dell’accoglienza incondizionata; soprattutto perché noi non siamo l’America, purtroppo mi viene da dire. Non è possibile limitarsi a regalare diritti ai quali non corrisponde un’adeguata presa di coscienza dei doveri.

Comprendere se la forma di progresso adatta sia o meno lo ius soli è certamente però un dovere di civiltà. La possibilità che si inneschino scelte strategiche di far nascere bambini in Italia per usarli come teste di ponte per la più facile acquisizione di “diritti sociali” da parte dei genitori è un rischio di fronte al quale non si può rispondere con buonismi di facciata, né tantomeno però ignorando la parte migliore di quell’immigrazione rappresentata oggi dalle seconde generazioni, che occupano i banchi di scuola accanto ai nostri figli. Bisognerebbe guardare cosa non ha funzionato in paesi come la Svezia, dove un approccio puramente lassista ha generato enclave etniche completamente autoreferenziali composte da persone che essendo “cittadini” non hanno più bisogno di lavorare e quindi di confrontarsi con il resto della società.

 

Serve una terza via che coniughi la severità contro l’illegalità ed il pieno riconoscimento culturale e sociale degli immigrati onesti e del contributo che danno al nostro paese.Serve temperare lo jus sanguinis con percorsi meritocratici per la naturalizzazione che tengano conto degli anni di residenza legale, della contribuzione fiscale versata e del livello di integrazione culturale e sociale. In quest’ottica, per chi nasca e studi in Italia dovrebbe essere ragionevolmente possibile conseguire la cittadinanza anche prima dei 18 anni.

L’attuale modello sociale italiano è fatto da rendite di posizione, burocrazia, assistenzialismo, rendite di posizione e scarsa attitudine alla competizione. Fare in modo che l’immigrazione entri in gioco positivamente è la vera sfida. Iniettando energie positive evitando lo stallo – e non invece in chiave negativa, cioè creando nuovi accaparratori di risorse pubbliche.

Occorrerebbe un maggiore sforzo nell’attrarre immigrazione qualificata e non solo manovalanza. Insomma serve una visione di lungo periodo che superi le comode semplificazioni su cui i partiti si sono adagiati per troppo tempo, rendendosi conto che ciò che più spaventa oggi non riguarda chi nel nostro paese cerca fortuna e un avvenire..ma chi non lo trova.. e se ne và..

 

a cura di Sara Giudice

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